Cassazione civile, sez. VI, 9 marzo 2000, n.2925 (obbligo
del genitore affidatario - diritto di visita dell'altro coniuge - elusione del provvedimento
del giudice civile - Reato non educare i figli a vedere l’ex coniuge).
"Commette reato il genitore affidatario dei
figli minori se non li educa e non li sensibilizza ad avere un rapporto con
l’altro genitore dal quale vivono separati, in quanto anche tale comportamento
"omissivo" può costituire l’ "elusione" dolosa di un
provvedimento del giudice. Considerato il "ruolo centrale" che assume
il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’ex
coniuge, l’ "atteggiamento omissivo" del genitore che non educa e
sensibilizza i figli a vedere l’altro genitore finisce con l’eludere il
provvedimento con il quale il giudice aveva imposto il diritto di visita; tale
comportamento finisce inoltre con il riflettersi negativamente sulla psicologia
dei minori, indotti essi stessi a "contrastare gli incontri con il
genitore non affidatario", proprio perché non "sensibilizzati"
ed "educati" al rapporto con l’altro genitore".
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza 7 maggio
1999, confermava quella in data 21.1.1997 del Pretore di Salerno - Sez. Rocca
daspide -, che aveva dichiarato Angelo Antonio B. colpevole del reato di cui
all’art. 388, comma 2, c.p. e, in concorso delle circostanze attenuanti
generiche equivalenti alla recidiva, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente
sospesa, di un anno e mesi sei di reclusione.
Si era addebitato all’imputato di essersi sottratto
all’adempimento degli obblighi derivanti da tre ordinanze del giudice civile,
concernenti l’affidamento delle figlie minori, avendo impedito alla moglie di
vederle nei giorni stabiliti dai predetti provvedimenti.
La Corte di merito riteneva di ravvisare, nella
condotta tenuta dall’imputato, gli estremi del reato contestatogli, avendo
posto la moglie nella condizione di dovere interrompere ogni rapporto con le
figlie e di dover ricorrere ripetutamente all’intervento del giudice, proprio
per gli ostacoli frappostile dal marito all’esercizio del diritto di incontrare
le figlie, senza - per altro - che la predetta raggiungesse lo scopo.
Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per
cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato e, nel sollecitare
l’annullamento della decisione, ha dedotto: 1) difetto di motivazione in
relazione alle puntuali e articolate doglianze formulate con l’appello in punto
di responsabilità ,nonché in relazione all’entità della pena, eccessivamente
severa in rapporto al fatto e alla sua personalità; 2) inosservanza della legge
penale, con riferimento all’art. 388, comma 2, c.p. considerato che la integrazione dell’illecito da tale norma
previsto poteva configurarsi solo in relazione a una condotta commissiva, che
andava provata, e non già in relazione a una mera condotta omissiva.
All’odierna udienza pubblica, le parti hanno
concluso come da epigrafe.
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto nei
limiti di seguito precisati, mentre per il resto va rigettato.
Prive di pregio sono le doglianze in tema di
responsabilità, atteso che la sentenza impugnata fa buon governo della norma di
cui all’art. 388, comma 2, c.p. e riposa su un apparato argomentativo
assolutamente adeguato e logico, che si sottrae a qualsiasi censura rilevante
in questa sede di legittimità.
Ed invero, devesi, innanzi tutto, puntualizzare che,
ai fini della sussistenza del reato di mancata esecuzione dolosa di un
provvedimento del giudice che concerna l’affidamento dei minori, il termine
"elude" va inteso in senso ampio, essendo comprensivo di qualsiasi
comportamento, positivo o negativo, che non esige scaltrezza o condotta subdola
per evitare l’esecuzione del predetto provvedimento; se è vero che la semplice
inattività, in genere, non integra l’elusione, non può disconoscersi che
l’azione negativa dell’obbligato assume rilievo, ai fini della configurazione
dell’illecito in esame, ogni volta che il relativo obbligo richieda, per essere
adempiuto, una certa collaborazione da parte del soggetto cui è imposto, in
difetto della quale, divenendo il provvedimento del giudice difficilmente
eseguibile, si ha elusione del provvedimento stesso.
Nella specifica materia in esame, è di intuitiva
evidenza il ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli
incontri dei figli minori con l’altro genitore, e ciò a prescindere
dall’osservanza burocratica del relativo obbligo imposto col provvedimento
giurisdizionale. Ne consegue che il rifiuto di fatto opposto dal genitore
affidatario alla richiesta - verbale o scritta - dell’altro genitore di
esercitare il diritto di visita dai figli concreta l’elusione del provvedimento
giurisdizionale che regolamenta tale rapporto, proprio perché l’atteggiamento
omissivo dell’obbligato finisce col riflettersi negativamente sulla psicologia
dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore
non affidatario, proprio perché non sensibilizzati ed educati al rapporto con
costui dall’altro genitore.
Con riferimento al caso specifico, la sentenza
impugnata ha sottolineato, in maniera sintetica, ma incisiva, che la parte
offesa era stata costretta, a seguito dei ripetuti rifiuti del marito, a fare
ricorso al Giudice, senza per altro raggiungere lo scopo, data la persistente
ostinazione dell’obbligato; ha aggiunto, inoltre, che l’ostacolo agli incontri
della madre con le bambine era da ricercarsi anche nell’influenza negativa che
su queste ultime avevano esercitato i congiunti del prevenuto (così come
accertato nella c.t.v. acquisita - a sostanziale rinnovazione del dibattimento -
nel giudizio d’appello), evento questo che lo stesso prevenuto avrebbe avuto il
dovere di evitare.
Fondata, invece, è la censura sull’entità del
trattamento sanzionatorio. Non è dato, infatti, riscontrare, nella sentenza di
primo e secondo grado, una motivazione appagante, che dia ragione
dell’esercizio del potere discrezionale del giudice di merito nella scelta
della misura della pena, fissata ad un livello apparentemente elevato in
relazione alla previsione edittale (reclusione fino a tre anni o multa da L.
200.000 a L. 2.000.000).
Nella determinazione del trattamento sanzionatorio
il Giudice gode, infatti, di una discrezionalità vincolata, nel senso che, quanto
più si discosta dal minimo edittale, ipotesi questa in cui viene concretamente
a mancare la necessità di esplicita motivazione, tanto più deve dare ragione
dei criteri legali che sono sintetizzabili nella retribuzione (gravità
complessiva del fatto) e nella prevenzione sociale (capacità a delinquere in
termini di attitudine del reo a commettere crimini). Non può ritenersi congruo,
per giustificare, il corretto esercizio del potere discrezionale, il generico
richiamo "all’entità del fatto" e "alla personalità
dell’imputato", ove la scelta si orienti , come è avvenuto nella specie,
per una pena notevolmente rigorosa (almeno in apparenza). E' necessario, in
tale ipotesi, non affidare il relativo giudizio a mere clausole di stile, ma
analizzare, nel dettaglio, quei criteri tipizzatori di natura oggettiva e
soggettiva indicati nell’art. 133 c.p. e individuare quelli ritenuti rilevanti
per la scelta che si va a fare, sì da offrire una base argomentativa adeguata a
conforto del corretto esercizio del potere discrezionale.
Limitatamente a questo aspetto, la sentenza
impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio alla Corte d’Appello di
Napoli, per nuovo giudizio.
E' il caso di sottolineare che, in sede di rinvio,
non può farsi questione in ordine ad un’eventuale prescrizione del reato,
considerato che la sentenza è ormai irrevocabile nella parte relativa
all’affermazione di colpevolezza dell’imputato (giudicato progressivo).
L’annullamento che riguarda solo la parte della sentenza relativa al quantuni (non
all’an) della pena, che dovrà eventualmente essere rideterminata ma non potrà
essere eliminata, non va ad incidere sulla parte concernente l’affermazione
della responsabilità, che resta intangibile (cfr. Cass. S.V. 26.3.97 n. 2,
Attinà).
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza, limitatamente
all’entità della pena inflitta, e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte
d’Appello di Napoli.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 18.11.1999.
Sentenza depositata il 9 marzo 2000.